Mi chiamo Dennis Ogbe, e da bambino ho sempre avuto un solo desiderio: giocare a calcio. In fondo, tirare calci a una palla non è forse il desiderio di ogni bambino in ogni angolo del mondo?
Non è stato facile per uno come me. Non solo perché gli altri bambini mi ignoravano. E neppure perché mi prendevano continuamente in giro. Il motivo era un altro, ben più grave. Quarto di dodici figli, a tre anni avevo contratto la malaria. E quando in Nigeria capita di prendere questa malattia, che già di per sé è devastante, può capitare anche di peggio. Per esempio, venire curati in una clinica di fortuna e al risveglio ritrovarsi con il sistema immunitario compromesso. Come accadde a me quando un’infermiera ruppe l’ago di una siringa nella mia schiena. In coma per tre giorni, al risveglio mi ritrovai con un sistema immunitario molto indebolito. Non solo. Tornai a casa dopo aver contratto in ospedale la poliomielite. In pratica, paralizzato dalla vita in giù.
Sapete cosa accade ai bambini diversamente abili in Nigeria? Di solito vengono allontanati dalle famiglie e finiscono in strada a chiedere l’elemosina. Non andò così per me, perché mio padre non avrebbe mai lasciato nessuno dei suoi figli a mendicare per la strada. Cosa mi aiutò? La terapia peggiore: il bullismo degli altri bambini. Quando volevo giocare a calcio, loro per dispetto mi rubavano le stampelle. E allora io correvo poggiandomi su una sola gamba, la destra. Che diventò più forte. Sempre più forte, a dispetto della sinistra che rimase paralizzata. Mi chiamavano “storpio”, mentre continuavo a cadere.
Perché scelsi l’atletica? In realtà praticavo molti sport. O almeno tentavo. Tennis, salto in alto e basket – sempre zoppicando, naturalmente. All’epoca le persone disabili potevano praticare solo il lancio del peso, il giavellotto, il sollevamento pesi o comunque discipline di atletica leggera. Non avendo i soldi per comprare una sedia a rotelle, adatta per giocare a basket, iniziai con il lancio del giavellotto. Riuscendo a lanciarlo lontano, molto lonta-no. Scoprii che potevo lanciare qualsiasi oggetto pesante a oltre cinquanta metri di distanza, con una forza quasi sovrumana.
Mio padre, Adolphus Adeyi Ogbe, che mi ha lasciato nel 2004, mi diceva sempre che non era importante come si comincia qualcosa, ma come si finisce. Non solo. Mi ripeteva che in ogni disabilità c’è sempre un’abilità. Un vero inno alla vita, che mi fece sopportare di tutto. Il sollevamento pesi, per esempio, che mi permise di rafforzare gli arti superiori. Fu così che mi qualificai per i Giochi paralimpici di Sydney nel 2000. E a quelle Paralimpiadi fu un coach statunitense a notare le mie qualità, proponendomi una borsa di studio presso la Bellarmine University a Louisville, nel Kentucky. Iniziò così per me una nuova vita.
Il 12 febbraio 2010 mi è stata concessa la cittadinanza americana, insieme all’onore di rappresentare gli Stati Uniti ai Campionati del Mondo. E nel 2012 ho partecipato ai Giochi paralimpici di Londra con la maglia della Nazionale americana. Non sono più “lo storpio”. Detengo i record nazionali del lancio del disco e del peso. Vivo a Louisville, con mia moglie Dyan e mia figlia Marylou. Ma lo sport non è tutto per me. Oggi mi occupo di promuovere l’eradicazione della polio e sono un ambasciatore per la campagna della United Nations Foundation Shot@Life, che promuove le vaccinazioni in tutto il mondo per questa terribile patologia. La poliomielite è stata una delle malattie più temute del xx secolo, sapete? Soprattutto per i bambini. Una condizione capace di paralizzare anche un giovanotto, rendendolo permanentemente invalido, deforme e impossibilitato a respirare al di fuori di un cilindro metallico. Le campagne di sensibilizzazione sono im-portanti, in un’epoca in cui la polio tende a ripresentarsi nei Paesi poveri come la mia Nigeria.
Mi chiamano “l’uomo d’acciaio dal cuore d’oro”. Non so. So solo che essere disabili non significa la fine della vita. E io ne sono la dimostrazione.
La poliomielite era presente fin dall’antichità. Alcune deformazioni ossee sono state osservate in reperti scheletrici databili intorno al 3700 a.C. All’inizio del XX secolo, quella strana forma di paralisi infantile veniva ancora definita “morbo misterioso”. Allora le epidemie erano all’ordine del giorno. Come nel 1952, quando un’epidemia di poliomielite colpi negli Stati Uniti 58mila persone, con 3.145 morti e 21.269 paralisi. Poi, nel 1955, il mondo rimase col fiato sospeso dopo la vaccinazione di 440mila scolari con il vaccino di Salk. Una commissione ne valutò l’esito e il mondo tirò un sospiro di sollievo.
L’antipolio funzionava.
Jonas Salk non brevettò mai il proprio vaccino. Quando il giornalista Murrow gli chiese di chi fosse il brevetto, lui rispose: «Be’, della gente. Puoi forse brevettare il sole? Un vaccino deve essere considerato sostanza naturale, non un prodotto dell’ingegneria umana». Fu la National Foundation for Infantile Paralysis a operare negli Usa la vaccinazione, dopo che ottanta milioni di persone le avevano fatto una donazione.
Prima del 1955, la poliomielite era una patologia molto frequente anche in Italia. Non era raro vedere persone con arti deformati o altre che perdevano progressivamente la capacità di contrarre i muscoli.
Grazie al vaccino, nel 2017 si sono verificati solo dodici casi di poliovirus selvaggio nel mondo: sette in Afghanistan e cinque in Pakistan. Un minimo storico. Grazie ai vaccini e alle migliaia di persone che li hanno somministrati a due miliardi e mezzo di bambini.
Bückler, Johannes. Non esistono piccoli campioni, Busto Arsizio (VA): People, 2021.